sabato 14 settembre 2013

Una piccola o una grande immortalità?



 Il mio secondo maestro nel capo teatrale, un giorno, mentre stavo seduto dall’altra parte della scrivania tentando di riconoscere se quella vocale era aperta o chiusa, mi espose una sua opinione sulla vita che mi lasciò interdetto (dopo un istintivo pensiero che suonava all’incirca così: «Ma che cazzate che spara.»; beh, forse, meno pesante nel linguaggio); mi disse che compito dell’uomo, ma ancor più importante, dell’artista è che la sua opera venga accolta e ricordata anche dopo la sua morte, se l’artista muore nell’ignoranza di tutti, il suo compito e tutti i suoi sforzi non sono serviti a nulla.
Chissà se diceva così per spronarmi o perché aveva visto qualcosa in me; cosa lo aveva spinto ad accogliermi con così tanto zelo fra i suoi allievi?
Ma questa è un’altra domanda e un’altra storia.
Sul momento pensai che aveva sparato un’idiozia grandissima, immediatamente dopo lo beffeggiai, col pensiero, chiedendomi chi mai si sarebbe ricordato di lui (oltre ai vecchi addetti ai lavori), ma poi... poi ripensai a quelle parole, le sentii risuonare nella mente e pian piano un macigno enorme si poggiò sulla schiena del mio morale, della mia anima; iniziai, a poco a poco, a chiedermi se sarei riuscito a fare qualcosa, se tutta quella passione che avevo (ed ho) per il teatro, sarebbe rimasta nella mente delle persone, se una delle poesie, solo una, scritte nell’impeto o nella precisione, sarebbero perpetuate e lo scenario futuristico che intravidi fu quello di una morte nell’ombra.

Ora, perché scrivo a tal proposito? Perché vado a ripescare un fatto che può e non può interessare, ma soprattutto, abbatte il mio morale?
Semplicemente perché questa sera sono uscito di casa, ho preso un autobus e due metropolitane e sono arrivato a Piazza del Popolo (Roma), lì, in attesa dell’arrivo di un appuntamento, mi sono seduto sulla gradinata dell’obelisco centrale per godere dello spettacolo che un artista di strada stava dando: un Michael Jackson rinato.
Vedendo la folla che lo circondava, vedendo come i bambini lo indicavano con espressioni felici, di come ragazzi e ragazze e anche adulti, filmavano, fotografavano, gli stringevano la mano pensai a ciò che mi disse il mio maestro e realizzai come quel Michael Jackson fosse più, molto, molto di più di un semplice artista di strada, era la sua reincarnazione, ovvero, lo rendeva vivo! E non solo lui, ma anche tutte quelle persone che lo guardavano con ammirazione vedendo in lui il vero Michael ed anche in me che pensavo a quanta magnificenza c’era...

Così accadde anche quando, in un paese estero del nord Europa, incontrai Charlot! Era proprio lui! I pantaloni larghi, le scarpe grandi e vecchie, un vestitino stretto che copriva la camicia bianca, il bastone, la faccia bianca con gli occhi cerchiati di nero, i baffetti (che oggi diremmo “alla Hitler”), il bastone e... il suo fenomenale cappello. Anche allora lo vidi scherzare con un bambino: sceso dal suo piedistallo per salutarlo (da notare che il bambino era già estasiato da quella figura, solo per ciò che vedeva esteriormente) gli cadde la bombetta, così chiede al piccolo se può riprendergliela e lui lo fa, ma proprio mentre sta per afferrarla, gli cade il bastone! Allora chiede al bambino se può prenderglielo e lui lo fa, ma, mentre lo afferra, la bombetta scivola nuovamente a terra; una scenetta che durò per un po’ di tempo e quell’artista di strada sapeva sempre muoversi e reagire in modo diverso, sempre più dinamico e catastrofico, sempre più imprevedibile, dinoccolato proprio come l’originale. A me, quando passai davanti a lui e lo guardai in viso, mantenendo la sua figura immobile come una statua, si limitò semplicemente a farmi l’occhiolino, un gesto rapidissimo ma che mi emozionò enormemente.

Ebbene, seguendo l’esperienza di questi casi, ritorno a chiedermi se sia giusto ciò che il mio maestro diceva: che l’artista deve mirare all’eternità, deve far sì che il suo compito perpetui nel tempo, proprio come noi ricordiamo e citiamo i tragediografi e commediografi, o i filosofi e poeti dell’antica Grecia, anche l’opera mia o di qualsiasi altro artista, se raggiunge il suo compito, fra centinaia di anni sarà ricordata.
E, per dare una risposta, io sono combattuto dall’idea che chi produca materiale artistico, in qualsiasi sua forma, pur ricordato da una sola persona, ha fatto già il suo dovere, oppure se, nel corso della sua vita, con un’opera abbia influenzato la vita di una singola persona, ha anche svolto bene il suo dovere; dall’altra parte sono convinto che tutti coloro che fanno arte debbano mirare a quella gloria che li renderà eterni e immortali! Proprio come Elvis, proprio come Michael... e non a caso, alla morte di questi due personaggi, centinaia di persone hanno detto che non erano morti!

Ma quale sarà la giusta risposta? E (domanda ancor più ardua) in che modo si deve arrivare al successo?

Ma questa è un’altra storia.

Nessun commento:

Posta un commento