Il Blog in se si suddividerà in annunci personali, note sui miei lavori e veri e propri capitoli di racconti che ho finito di scrivere; vorrei avitare progetti nuovi o iniziati, perché la mia attività è incostante e in continua elaborazione, difatti questo blog iniziò con una storia a se, intitolata "Arcaica Mesant", quei post sono stati eliminati perché devo avere più tempo per comprendere meglio quella determinata storia.
Ciò che vi propongo, come primo lavoro è "In cerca di C.F."
Note dell'autore: C.F. è nato da un lungo viaggio interiore, in cui il protagonista, ombra dello stesso suo autore, ripercorre varie tappe della sua vita, concretizzate nelle varie città italiane, più due posti prettamente naturali, lontani dalle città, in cui avrà le più importanti rivelazioni. Il protagonista, volutamente senza nome, passa per: Milano, il lago d'Iseo, Roma, Napoli, il passo della Crocetta, Bari e infine una città misteriosa, in cui, forse, troverà la verità che racchiude in queste due lettere: C.F..
Ma C.F. non è nulla di certo, ogni lettore può vestire i panni del protagonista e compiere questo percorso con lui, fra realtà e fantasia, fino a scoprire cosa c'è oltre la porta del Cervo di Fuoco, fino a scoprirsi lui stesso protagonista di questo viaggio.
Spero che ogni lettore ne tragga un'importante verità, come io, autore, ho trovato in questa "impresa" letteraria.
Buona lettura!
- Notte a Milano -
In una giornata di nebbia,
caratterizzata dal mio respiro, andavo da solo su di una di quelle strade di
periferia. La pioggia aveva smesso di scendere ormai da un giorno ed i suoi
residui d’acqua si erano andati a ghiacciare lungo l’asfalto, sul marciapiede,
sui rami degli alberi spogli d’ogni loro grazia primaverile.
L’inverno calava sotto il
cielo di quella città tumefatta dalla frenesia dell’uomo, dalle auto che
logorano i palazzi e dai pensieri d’una ragazza che, lì, da qualche parte,
aveva disperso le sue lacrime. Io le cercavo con apparente noncuranza.
Osservavo le strade, i semafori, i volti di gente che ignoravano la mia
presenza e quasi mi urtavano nel loro andare spedito.
Chiusi gli occhi chiedendomi
perché ero lì e ripresi a camminare più deciso, ma col cuore sempre più
infranto: come uno specchio rotto, lo specchio della mia anima che si incrinava
giorno dopo giorno.
Camminavo.
Mi chiedevo dove lei fosse,
dove quel suo sguardo si fosse posato, e se non era un sorriso che mi schiariva
i pensieri, quasi sempre calava quel velo d’amarezza che mi spingeva a
cercarla, a divenire così incentrato sulla storia di lei che...
Chi lo sa.
Chi lo sa cosa credevo d’avere,
forse insulti, schiaffi, grida acute disciolte in lacrime? No, lei non ne
sarebbe stata capace.
Così mi avvicinai ad un
piccolo parco: un rifugio di questa terra braccata dall’uomo. L’assenza di
persone, però, lo rendeva cupo e triste, gli donava quella carica di Mistero
che si inebria nelle poesie da me composte e gliene avrei voluto dedicare una
in quel momento, in quell’istante…non importava che non avevo fogli e penna,
potevo scrivere nella mia mente, quei versi sparsi che amo comporre in momenti di
libera poesia.
«Mi rapisci in questo tuo
lugubre antro,
Mistero dalle mille identità
nascoste
che mostri solo a colui che
sa udirti,
che sa intendere il tuo
lamento cupo;
frena il mio passo con le tue
radici,
blocca il mio cammino
incerto, questo
mio lento andare nella tua
dimora!
O, forse, vuoi attirarmi in
questo luogo,
dove tu esali respiri di
morte e sonno,
per poi atterrirmi con la tua
forza, io
lo so! Intuisco i tuoi
pensieri effimeri,
come questa nebbia che
m’avvolge
la bocca, questo ghiaccio che
congela
i miei piedi, penetrando da
essi, tracciando
la loro conquista su, per le
ossa del corpo!
Aiutami ad esser forte,
aiutami ad essere…»
«Ad essere?»
Voltai il viso udendo una
voce di bambina. Io tenevo le mani sui pali di ferro che reggevano lo scivolo
ghiacciato, mentre alle mie spalle un’altalena aveva preso a dondolare e su di
un suo sedile vi era una bambina dai ricci capelli biondi, con indosso un
vestitino bianco, calze bianche, scarpette da cerimonia bianche, mentre gli
occhi restavano chiusi.
«Ad essere?»
Dissi rigirando la domanda.
«Non lo so. Io non so molto
del mondo.»
Girandomi totalmente la
raggiunsi sedendomi all’ultimo sediolino libero dell’altalena.
«Dove sono i tuoi genitori?»
«Non ho genitori. Vorrei che
tu mi raccontassi una storia, una storia di questo Mistero. Per piacere.»
Allora annuii e, non capendo
neanche il perché, cominciai a raccontarle del mio viaggio in quella terra
lontana.
«Anni fa giunsi in un
castello d’origine sveva, un castello molto antico, ma trascurato; in quel tempo,
come oggi, faceva freddo…ma lì, prese a nevicare…»
Prese a nevicare e quel
miracolo del cielo scendeva in cristalli d’una manifattura così alta da far
capire come la natura non possa essere superata da niente e nessuno. Quel
candore andava a posarsi lungo le vecchie mura del castello, sopra il suo
antico pavimento diroccato, sui miei capelli.
Alzai il viso in aria
sorprendendomi di tale situazione e proprio allora qualcun altro entrò. Io
stavo in quella che, a suo tempo, doveva essere la parte centrale del castello,
dove finestrelle si aprivano sulla vallata, sulla nuova città costruita in
tempi in cui non si teme più l’arrivo d’un guerra; io stavo seduto su di un
trono di roccia.
Chi entrò allora fu una
ragazza dalla pelle di neve, gli occhi d’un azzurro che viaggiava fra quello
gelido dei ghiacci e quello caldo del mare, con un andare timido e sogni
rivolti al cielo. I suoi passi erano attutiti da quella moquette fredda; la sua
bocca mi rivolse subito un saluto soffiato su note leggere, da flauto, ed io
ricambiai con un lieve cenno del capo.
Allora era immensamente
bella, la sua forza soppressa dalla timidezza che mostrava, si estendeva lungo
quelle sale antiche e abbandonate, mentre la mia ombra oscurava sottile il
pavimento sollevato dalla terra e spaccato da antichi flagelli.
«Ti stavo aspettando.»
Le dissi sollevandomi con
calma da quel masso antico, infilando le mani nelle tasche dei blu jeans e lei
non fece che arrossire e abbassare il capo. Il suo silenzio d’imbarazzo coprì
quei tre passi che mi servirono per raggiungerla, poi alzò la testa nell’esatto
istante in cui l’abbracciai; allora un vortice di sentimenti si accese da
qualche parte dentro il mio corpo, un calore straordinario unito alla forza del
vento, che sciolse la neve in brina. Quei cristalli perfetti trovavano la loro
morte sul mio corpo, non riuscivano a posarsi, perché…chissà perché…il cuore mi
batté così forte al contatto con la sua pelle.
Allora identificai tutto
quello come Mistero, ma nel preciso istante in cui materializzai questo
pensiero, lei era divenuta vento, vento che accoglieva i cristalli di neve
trasportandoli altrove. In quel suo fuggire, in quel suono cupo lasciato da
spire di vento gelato, percepii il suo disappunto: il rifiuto d’intraprendere
una strada che io desideravo, desideravo pienamente percorrere con lei. Ma quel
giorno d’inverno, perso fra le mura d’un castello, ignorato dagli uomini, è
terminato in piccole poesie o in piccoli versi di poesie più grandi, che
sottendono il mistero di quel giorno.
«…ciò accadde anni fa, quando
ancora ricercavo me stesso, quando questo luogo e questa città mi erano
ignoti.»
Sospirai e, guardando sulla
mia sinistra, notai che quella bambina era scomparsa, seppur l’altalena
accennava a muoversi, ma pareva più essere spinta dal vento che da altro. Non
mi chiesi mai una ragione di quell’apparizione ed il perché di quel ricordo, ma
aggiustai il cappello che portavo in testa e ripresi il cammino per quella
città immersa nella sua modernità.
Faceva freddo, quel giorno, e
per quanto potessi sfregare le mani, quella sensazione di gelo non lasciava la
mia pelle ma penetrava sempre più in profondità nella carne.
Giunto ad un negozio di
giocattoli mi soffermai a guardare la vetrina, a notare gli sgargianti colori
di quegli oggetti, il loro restare immobile, la loro perenne vita…e la vita
d’un giocattolo era tanto triste da spingermi ad allontanarmi in fretta. La
gente non dava peso al mio passo svelto, non ero abituato ad udire
quell’intercalare che avevano, ma ritrovavo atteggiamenti già visti in altre
città. D’altronde quando la conobbi era una città sconosciuta, seppur già zeppa
di automobili, di chiasso, di semafori e di palazzi, per me era sconosciuta.
«Signore.»
«Si?»
Mi sentii tirare il cappotto
e quando mi girai c’era nuovamente quella bambina dai boccoli d’oro, gli occhi
erano ancora chiusi, tanto che pensai che fosse incapace di vedere, o meglio,
di utilizzare gli occhi…perché altrimenti, in quale altro modo avrebbe potuto
riconoscermi in quel fiume di gente, se non vedendomi?
Mi chinai su di lei
accarezzandole il piccolo viso dalle linee morbide e quella morbidezza mi
ricordò qualcosa, un’immagine legata ai petali delle belle di notte, quei fiori
dai colori sgargianti, che, solitari, sbocciano solo nelle ore notturne,
celando la loro bellezza a chi vive di giorno...io la colsi. Accarezzai anche i
loro petali, morbidi, d’una morbidezza inesistente in altri oggetti, un po’
com’erano morbidi i filtri di quelle sigarette che fumavo.
«Tu hai mai fumato?»
Non mi sorpresi, stranamente,
di quella domanda che mi porse nell’esatto momento in cui pensai alle
sigarette.
«Ci fu un periodo in cui
fumavo a ripetizione, con la mente; quando presi in mano l’accendino vero,
avevo già fumato la mia ultima sigaretta.»
Mi sorrise e saltellando se
ne andò fra i cappotti lunghi delle persone, fra la nebbia che li avvolgeva e
che la rapì a se; mi chiesi allora il perché di quella sua apparizione, ma fu
una domanda così leggera, che bastò il rumore dei motori in partenza al
semaforo, per distrarmi su altri concetti.
La cercavo per quegli
anfratti di tristezza umidificati dalle lacrime di tutte quelle persone che non
piangevano, ma lo lasciavano fare ai loro sogni ed in essi le lacrime
invadevano le strade, per poi asciugarsi al mattino; la cercavo perché sentivo
che era da qualche parte, nascosta fra un pneumatico ed un tombino, ansimando
speranze fatte di luce, ma prima che potessi trovare la sua scia, una macchina
per poco non m’investì, facendo salire al cielo il suono del suo clacson.
Qualcuno riuscì a tirarmi nuovamente sul marciapiede e non fui sorpreso nel
rivederla, lei, quella bambina che in quella notte aveva deciso di seguirmi
come un fantasma e guidare la mia anima verso i meandri del passato.
«Devi stare attento.»
«Grazie di avermi salvato
piccola.»
Mi sorrise ed io le presi la
mano.
Inconsciamente cominciammo a
camminare insieme, passando sotto portici, balconi gocciolanti, alberi da città
intrisi di smog, fino a trovare una piccola panchina in cemento che accolse i
nostri corpi stanchi.
Mi tolsi quel cappello alla
Bogart che indossavo a sollevai il capo al cielo, sorprendendomi di come troppo
poco la nostra attenzione si dissocia dalla terra o da un campo visivo medio;
allungandomi verso il cielo risentivo il mio spirito prender forma e ossigeno, i
miei sensi si rilassarono e trovai conforto nell’infinito oceano notturno,
cielo, però, privo di stelle.
«La Luna non c’è.»
«No invece, c’è, solo che tu
non la vedi.»
«Davvero? Tu riesci a
vederla?»
«Certamente è lì.»
Ed alzò il suo piccolo indice
verso la volta oscura che era compressa dalla grande città; io seguii la
traiettoria indicatami ma non vidi altro che coltri nere, d’altronde ogni
frazione di cielo era coperta da nubi.
«Io non vedo proprio niente
sai?»
«Con cosa stai guardando? E
specialmente, cosa guardi?»
«Guardo il cielo e...si
guarda con gli occhi, almeno le cose “visibili”.»
«Ma io ti ho indicato la Luna non il cielo, ed abbiamo
altre percezioni oltre gli occhi.»
Ci pensai un po’ su, chiusi
gli occhi, feci un bel respiro e ricercai in me quell’altra fonte percettiva di
cui ero dotato, non so bene definirla, non so se era talento, ispirazione o
qualcosa legato a logiche matematiche e genetiche, ma so che era in me, ciò che
mi concede di creare dal nulla, ciò che mi rende Artista.
Quando riaprii gli occhi vidi
la Luna.
Era gigante, enorme, quasi
sembrava si stesse schiantando contro il mondo, e investiva la città con una
luce d’un lieve blu notte, un velo che scendeva sui corpi di tutti, un raggio
rassicurante e misterioso, di quel mistero che non lascia paure ma speranze di
gioie future, come le può generare la fede.
Mi persi a contemplarla,
restando esterrefatto dalla sua presenza così vicina da poterne quasi sentire
l’odore del suo terreno, ma così distante da non riuscire ad afferrarla; ed allungai
la mano verso di essa, desideroso di accarezzarla, come si accarezza un volto
di donna.
«Avevo ragione, visto?»
«Vedo.»
Continuavo a cercare di
toccarla tangibilmente, ma non riuscendoci, ritirai il braccio per poi
sorridere a quella deliziosa bambina.
«I bambini hanno molto da
insegnare agli adulti. Ma...tu sei orfana? Non dovresti andare in giro per la
città a quest’ora.»
«Perché? Anche tu sei in
giro.»
«Ma io sono più grande di
te.»
«Non ci giurerei, non sei
stato nemmeno in grado di riconoscere la Luna.»
«Cosa significa?»
«Significa che hai molto da
imparare.»
«Da te?»
«No affatto.»
«E allora, da chi?»
Premette il suo piccolo dito
indice sul mio petto.
«Da te stesso.»
E poi mi sorrise con una
semplicità e spontaneità unicamente tipica dei bambini; io abbassai lo sguardo,
mi toccai il cuore con la mano destra e quando lo rialzai, lei non c’era più,
né si poteva intravedere nei paraggi.
Guardai il cielo...era
svanita anche la Luna.
Si andava così a disintegrare
in me quella sensazione di pace che ero riuscito a raggiungere, placando il mio
animo di quell’accecante ricerca che mi estenuava.
Lento, stanco e infreddolito,
mi chiusi ancor di più nel cappotto, indossai ancora il cappello e ripresi il
mio viaggio per quella città. Non percepivo niente ormai, guardandomi attorno,
osservando quelle persone della notte che vagavano in cerca di un futuro, non
percepivo nulla dell’essenza di lei...
Avevo ancora molto da imparare, forse troppo per la mia breve vita.In cerca di C.F. è acquistabile su lulù.com
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