venerdì 13 settembre 2013

Ti amo, Napoli li 15 gennaio ’12 - 4° Capitolo di "In cerca di C.F."



- Ti amo, Napoli li 15 gennaio ’12 -
«Aprì gli occhi e tutt’intorno il mondo riprese a vivere anche per lui. Si sentì bruciare la pelle del viso, mentre la schiena era massaggiata da piccoli e levigati sassi; i capelli si muovevano come tentacoli oscuri, seguendo l’andamento del tempo.
Gli occhi restavano fissi sul cielo, pronti per farsi prosciugare dal calore del Sole, mentre nelle orecchie giungeva, sempre più nitido, un suono di conchiglia, un suono che gli ricordava il suo luogo natale, un suono di famiglia, casa, odori e mattoni rossi.
Gli stessi occhi, spalancati verso il cielo, non guardavano nulla in realtà, erano fissi verso l’azzurro di quel posto ma non percepivano immagini reali e non erano in grado di far sbattere le ciglia (ma probabilmente questo era il volere del proprietario); c’era qualcosa sospeso, a mezz’aria fra le nuvole e la carne, una ragazza dai limpidi capelli cielo e freschi occhi di sangue umano. Lui avrebbe voluto parlarle ma non trovò la forza per farlo, così attese che fosse lei a rivolgergli la parola.

La ragazza lo osservò a lungo, non scostando mai il suo sguardo dagli occhi asciutti del naufrago; restò in silenzio, priva d’espressione, cercando di capire com’era possibile quel contatto visivo che le dava incerte sensazioni di calma...come se lui fosse il suo fulcro, il motore dell’essenza, l’energia prima del mondo.

Al primo battito di ciglia di lui, gli occhi trovarono refrigerio dal calore esterno, qualche lacrima distillò le cornee assetate...ma lei svanì.»

Così scrivevo tranquillamente, seduto su di una panchina disposta sul lungomare napoletano. Dietro avevo una città in continuo tumulto e confusione, ma davanti la calma mediterranea di calde acque marine allietava le mie orecchie con il suo perenne e mai uguale strascico.
Mi sollevai piano, conscio che mi sarei dovuto impelagare nei vicoli-ragantela che questa città offriva.
Il sole splendeva alto, ma mai riuscii ad intravederlo per le strade di Napoli, se non in quelle più grandi, dove la gente finalmente poteva respirare e camminare non più per inerzia ma per volontà propria.
La città mi appariva in un groviglio di essenze, di storie belle e storie tristi di buffoni, ingannatori, mestieranti improvvisati: giocolieri della vita, che si imponevano un sorriso da pagliaccio per poter tirare a campare ancora un altro giorno, in questa città luciferina: accolta in paradiso come la più bella e sapiente, per poi essere scagliata nell’Inferno con violenza, odio e invidia.
Camminai, spinto da tutto il resto e lottando contro tutto il resto, per poi adagiarmi nel primo largo che trovai: una piccola piazzetta ignorata dalla massa di tedeschi e inglesi che guardavano ogni angolo della città con un’ignorante esaltazione infantile.
Al centro della piazzetta stava una signora anziana che, vittima della spina dorsale, era costretta a guardare i propri piedi, piuttosto che l’orizzonte. Nella mano destra stringeva, tremante, un bastone di legno di quercia, mentre nell’altra sbriciolava pane azzimo per i colombi di città, detti comunemente piccioni.
Alzai la macchina fotografica che avevo al collo e cercai di inquadrarla nell’obiettivo ma...per quanto cercassi di mettere a fuoco la sua immagine, essa appariva perennemente sfocata. Confuso controllai bene la lente, puntai l’obiettivo su altre persone, altri oggetti, scattai qualche foto di prova e tutto sembrava funzionare alla perfezione.
Ci riprovai.
Impugnai con entrambe le mani la macchina fotografica, misi la figura della donna al centro del riquadro e...nulla, appariva costantemente sfocata.
Mi grattai la testa ancora più confuso per quello strano avvenimento, finché vidi, a pochi centimetri da me, due vecchie scarpe di pezza blu scuro.
«Cosa stai facendo?»
Domandò con calma la vecchietta.
«Sto controllando che la lente...»
Alzai il viso ed un simpatico sorriso amorevole mi fece interrompere la frase.
«Oh, nulla d’importante.»
«Posso sedermi?»
«Certamente!»
Mi scostai sulla sinistra facendole posto sulla panchina e lei con una calma controllata da lumaca, si piegò pian piano fino a lasciarsi andare, entrambe le mani erano poggiate sul manico del bastone.
«E’...è una bella giornata non trova?»
«Chi?»
«Ma lei, signora.»
«Oh...! Certo, certo, è una di quelle giornate che adoro.»
Sospirò mentre annuiva col capo e si passava una mano fra i capelli, la bocca restava semiaperta per respirare meglio ed i suoi occhi, fissi sul fondo della piazzetta, stavano certamente vagando per chissà quali ricordi e fantasie.
«Volevi farmi una foto?»
Interruppe un lungo silenzio.
«Ci provavo, ma a quanto pare c’è qualche problema di focalizzazione.»
«Davvero?»
«Sì, vede...pare che la sua immagine sia sfocata per questo obiettivo.»
Aprì la bocca come a voler parlare, ma poi si limitò semplicemente ad annuire.
«Sai, tutto dipende da con cosa si guarda e che cosa si guarda.»
L’avevo già sentita questa frase...ma non ricordavo proprio dove.
«Beh non c’è tanta possibilità...è una macchina fotografica infondo, cosa c’è di più obbiettivo?»
«Ma non è lei che guarda, sei tu che lo fai.»
«Temo di non capirla.»
«Capire a chi?»
«A lei, no?»
«Ah...già.»
Si mise a ridere rovistando in tasca estraendo un sacchetto pieno di briciole di pane, che appena fu aperto destò l’attenzione di una decina di piccioni.
«L’uomo spesso non guarda, si limita a vedere; l’immagine in se non ha nulla, siamo noi che diamo valore alle immagini, siamo noi che decidiamo cosa guardare e cosa scartare.»
«Potrei darle quasi ragione.»
«Sai è una delle cose che ho imparato sin da bambina.»
«E’ un concetto complesso.»
«E’ vero, è vero...ma è talmente naturale che non dovrebbe esserlo.»
«Era una bambina in gamba.»
«Si capisce!»
Disse sbarrando gli occhi e lanciando delle briciole sul terreno. Immediatamente quei colombi cominciarono a spintonarsi e beccarsi per avere il bottino.
«Bisogna essere intelligenti nella vita, ed io lo ero...d’altronde frequentavo sempre C.F.»
Mi drizzai immediatamente girandomi verso la vecchietta e con fare ansioso le chiesi...
«Lei conosce C.F.?»
Mi guardò di sott’occhio non scomponendosi minimamente dalla sua calma cementificata negli anni.
«Dici di no?»
«Non lo so. Lei...lei ha detto C.F.!»
«Lei chi?»
«Lei tu!»
«Ah! E’ vero.»
Tacque.
«Mi scusi se insisto, ma io sto cercando C.F., se sa qualcosa al riguardo deve dirmelo.»
«Perché...? Ah! Non mi rispondere...sarà per lo stesso motivo per cui io ci sono andata, ed ora...eccomi qui, già sulla soglia dei cent’anni.»
«La supplico, ho fatto un lungo e tortuoso viaggio per essere qui.»
«Davvero? Beh, devo sconsigliartelo prima.»
«Lei sa quali sofferenze prova l’essere umano, in questa continua pazza ricerca per...»
«...per avvicinarsi agli estranei, e inevitabilmente questo rapporto li fa soffrire.»
Rispose, continuando il pensiero che avevo intenzione di esporle, ma decisi di continuare al suo posto.
«Finché non si trova la giusta distanza fra le due persone...»
«...però attorno c’è troppo caos, ed altre persone potrebbero spingere una delle due oltre la soglia.»
Questa volta semplicemente ribatté alla mia affermazione, ma ripresi a parlare.
«In più c’è il caos dei sentimenti, delle parole...le più comunemente confuse sono...»
«...sono: amicizia, amore, passione.»
Annuii semplicemente, meravigliandomi di come quei pensieri che credevo strettamente personali fossero condivisi con identiche parole da un’estranea, un’estranea che, però, aveva frequentato C.F.
«Come fa lei a sapere tutto questo?»
«Cosa?»
«Tutto ciò che abbiamo detto fin ora!»
«Ah! E’ vero, è vero...beh ragazzo, non sei l’unico a soffrire di questi mali; se l’uomo fosse leggermente più consapevole della sua condizione, cercherebbe a tutti i costi C.F. proprio come te, proprio come me.»
«Lei dunque l’ha fatto per questi stessi motivi?»
«E’ triste ammetterlo ma...sì. Ho vissuto poco, ma ho vissuto tanto.»
Sospirò e, notando che aveva terminato le briciole di quel pane raffermo, con fatica si sollevò dalla panchina puntando i suoi occhi su di me.
«Questo è un luogo di passaggio. Non dovresti fermarti qui per molto se vuoi raggiungere il tuo scopo.»
«Mi è stato consigliato da F.V. di venire qui.»
«F.V.?!?»
Sgranò gli occhi quasi in modo terrificante e mi osservò per un lungo tempo, fino a sciogliere il suo stupore in un dolce sorriso da vecchietta.
«Seguimi ragazzo. Fidati delle mie vecchie ossa.»
E così feci: tacito, acconsenziente, gentile e aiutandola ad attraversare la strada come un bravo boyscout arrivammo alla sua dimora, un classico basso napoletano.
La porta si aprì appena lei la spinse col bastone in legno che sosteneva il suo peso, e, scesi tre gradini, fummo nell’appartamento. Osservandomi attorno c’erano solo vecchie cose, come vecchia era l’aria che si respirava, mista a smog e chissà quali altre sostanze tossiche. La carta da parati era arricciata su alcuni angoli, mentre in alcuni punti cominciava a sorgere la muffa. Vecchie foto, incorniciate da dell’argento sporco, riportavano alla luce del presente un passato strano...erano foto vuote, prive di persone intendo, cioè...erano luoghi spogli.
«Non guardare troppo quelle foto.»
Mi avvertì con voce roca.
«Sono il peso che porto da sempre.»
«Non capisco...»
«Non andare da C.F.»
«C’entrano queste foto?»
Scosse il capo, non tanto come gesto di negazione, ma come rassegnazione.
«Chi frequenta C.F. non può esistere. C.F. ti consuma, ti logora, ti risucchia gli organi e l’ombra.»
«Vuole dire che non può essere fotografata? Per questo non ci riuscivo?»
Sospirò.
«Avere tutto: felicità, amore, soldi, una cultura omnia...una salute perfetta, questo vuol dire frequentare C.F. per i motivi per cui noi ci andiamo.»
«Non è una cosa bella?»
«Vedi come sono ridotta? Schiava della mia malattia a guardare i miei piedi anziché l’orizzonte...e qui a Napoli, ci sono degli orizzonti magnifici.»
«Non, io non capisco! Cosa c’entra la salute con lei!»
Si voltò, più velocemente di quanto mi aspettassi e puntò il suo legnoso bastone contro di me.
«E’ stata la mia volontà! La mia scelta! Perché quando ti accorgi di non poter andare avanti con ciò che C.F. ti dona, comprendi come vorresti essere uomo e sprofondare nei suoi dolori, nelle sue colpe!!!»
Mentre urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, avanzava lentamente verso di me ed io ero costretto ad indietreggiare, fino ad urtare con le gambe su di una poltrona e caderci su, sollevando un mucchio di polvere.
«Ma...è folle! Desiderare i dolori umani è folle! Perché desiderarli!?»
«Perché è bello soffrire! E’ bello vivere i dissidi umani! E’ bello tenere una vita normale fra le proprie braccia.»
Tossì acciaccata da quel suo sbraitare.
Ormai respirava a fatica tanto s’era agitata. Con un braccio cercò disperatamente un appoggio e trovò il tavolo su cui consumava gli ultimi pasti della sua vita, e con fatica si sedette ad una sedia di legno accostata ad esso.
Io tremavo guardandola e non potei far altro che tacere, tacere per un lungo lasso di tempo.

Era ormai pomeriggio, io ero ancora seduto sulla poltrona, mentre lei stava dormendo sul letto.
Lasciai scorrere le ore.
Mi addormentai.

Una folata di vento ed aprì gli occhi. Chi? Lui. Lui, ovvero me.
Stava seduto a cavalcioni su di un muro di cemento grezzo che divideva la vita e la morte. Da un lato, sulla sua destra, c’era un cimitero, un classico cimitero, con lapidi più che normali, dall’altra parte una casa vegliava su di una strada ad angolo retto. Da dietro una finestra di quella casa una ragazza lo stava ad osservare, aveva lunghi capelli neri e labbra sottili e delicate.
Lui le sorrise nell’esatto momento in cui lei decise di chiudere le tende.

«Bisogna andare!»
«Andare?»
Il treno era partito ed un uomo alto, magro, con i capelli d’un grigio metallizzato teneva per mano me, ovvero lui, facendolo correre accanto ai binari.
«Non vorrai perdere il treno?»
«No. Certamente!»
«Allora su...salta, ti aiuterò io.»
Era una sorta di treno merci per animali, ma dietro le sbarre c’erano persone dal viso indefinito che ballavano su una musica house.
Orribile.
«Ho paura.»
«Sta tranquillo...sono qui apposta.»
L’uomo longilineo, dai capelli corti e argentati, con la riga a sinistra ed un cappotto di panno grigio e nero, estrasse due spade e con esse combatté contro gli uomini dal viso sfocato, facendosi largo con fatica affinché il suo protetto potesse raggiungere l’apice del treno.
Volteggiava, fendeva, parava...e le lame scintillavano furiose sotto le luci stroboscopiche da discoteca.
«Manca poco...!»
Gli disse con voce chiaramente provata, mentre lui tentava di schivare i bicchieri da cocktail, le parrucche, le cravatte le scarpe con tacchi a spillo e doveva tapparsi le orecchie per evitare quelle urla femminili, così acute da generare esplosioni soniche.
Boooom!
Fu scaraventato fuori dal vagone.

Rotolai (ritornai nel mio corpo) sul terreno di quella collinetta fino a finire sotto il piede destro d’una ragazza.
«Sai cosa devi dire.»
Mi disse con voce chiara, mentre, togliendo il piede da me si apprestava a chinarsi sul mio viso.
«Ho paura...»
Sollevò semplicemente le sopraciglia come ad avvertirmi di essere cauto sulle parole; allora ci riprovai.
«Ti amo.»
Le circondai il collo con le braccia e la baciai. In quel bacio percepii come un esplosione interna, come se un macigno cementificato negli anni si fosse infranto in un sol colpo...o fosse mutato in piume...perché erano piume ciò che vedevo scendere attorno a noi; o era la mia immaginazione, perché avevo gli occhi chiusi, umidi.
Fu comunque fantastico.

Mi svegliai lentamente, ma consapevole di ciò che dovevo fare. L’odore di caffè investiva la casa e non ci volle molto perché quella vecchietta me ne offrisse una tazzina già sapientemente zuccherata.
«L’hai capito chi sono.»
Sorrisi di risposta senza dir niente.
«Come stai?»
«Bene. Davvero bene.»
Sorseggiai piano quel caffè color cioccolata.
«Scusami per ieri, non volevo gridare in quel modo...»
La zittii subito con un gesto della mano.
«Hai fatto bene a dirmelo. Io dovevo solo prendere coscienza di ciò che realmente stavo cercando. Io cerco C.F. per amare...mi è indispensabile.»
«Per amare...»
Disse con occhi lucidi volti al polveroso lampadario ed io annuii sorridendo.
«Hai dato un ultima fiamma di gioia alla mia vita. Ora so perché volevo trovare C.F., ed è ora che tu possa terminare il viaggio.»
Le sorrisi dolcemente sorseggiando il caffè; quando l’ebbi finito gustai il suo sapore fra la lingua e il palato.
«E’ ottimo.»


Per chi si è perso o vuole rileggere i capitoli precedenti:
1) Notte a Milano 
2) Il dono del lago d'Iseo 
3) La passione di Roma 

In cerca di C.F. 

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