sabato 14 settembre 2013

Una piccola o una grande immortalità?



 Il mio secondo maestro nel capo teatrale, un giorno, mentre stavo seduto dall’altra parte della scrivania tentando di riconoscere se quella vocale era aperta o chiusa, mi espose una sua opinione sulla vita che mi lasciò interdetto (dopo un istintivo pensiero che suonava all’incirca così: «Ma che cazzate che spara.»; beh, forse, meno pesante nel linguaggio); mi disse che compito dell’uomo, ma ancor più importante, dell’artista è che la sua opera venga accolta e ricordata anche dopo la sua morte, se l’artista muore nell’ignoranza di tutti, il suo compito e tutti i suoi sforzi non sono serviti a nulla.
Chissà se diceva così per spronarmi o perché aveva visto qualcosa in me; cosa lo aveva spinto ad accogliermi con così tanto zelo fra i suoi allievi?
Ma questa è un’altra domanda e un’altra storia.
Sul momento pensai che aveva sparato un’idiozia grandissima, immediatamente dopo lo beffeggiai, col pensiero, chiedendomi chi mai si sarebbe ricordato di lui (oltre ai vecchi addetti ai lavori), ma poi... poi ripensai a quelle parole, le sentii risuonare nella mente e pian piano un macigno enorme si poggiò sulla schiena del mio morale, della mia anima; iniziai, a poco a poco, a chiedermi se sarei riuscito a fare qualcosa, se tutta quella passione che avevo (ed ho) per il teatro, sarebbe rimasta nella mente delle persone, se una delle poesie, solo una, scritte nell’impeto o nella precisione, sarebbero perpetuate e lo scenario futuristico che intravidi fu quello di una morte nell’ombra.

Ora, perché scrivo a tal proposito? Perché vado a ripescare un fatto che può e non può interessare, ma soprattutto, abbatte il mio morale?
Semplicemente perché questa sera sono uscito di casa, ho preso un autobus e due metropolitane e sono arrivato a Piazza del Popolo (Roma), lì, in attesa dell’arrivo di un appuntamento, mi sono seduto sulla gradinata dell’obelisco centrale per godere dello spettacolo che un artista di strada stava dando: un Michael Jackson rinato.
Vedendo la folla che lo circondava, vedendo come i bambini lo indicavano con espressioni felici, di come ragazzi e ragazze e anche adulti, filmavano, fotografavano, gli stringevano la mano pensai a ciò che mi disse il mio maestro e realizzai come quel Michael Jackson fosse più, molto, molto di più di un semplice artista di strada, era la sua reincarnazione, ovvero, lo rendeva vivo! E non solo lui, ma anche tutte quelle persone che lo guardavano con ammirazione vedendo in lui il vero Michael ed anche in me che pensavo a quanta magnificenza c’era...

Così accadde anche quando, in un paese estero del nord Europa, incontrai Charlot! Era proprio lui! I pantaloni larghi, le scarpe grandi e vecchie, un vestitino stretto che copriva la camicia bianca, il bastone, la faccia bianca con gli occhi cerchiati di nero, i baffetti (che oggi diremmo “alla Hitler”), il bastone e... il suo fenomenale cappello. Anche allora lo vidi scherzare con un bambino: sceso dal suo piedistallo per salutarlo (da notare che il bambino era già estasiato da quella figura, solo per ciò che vedeva esteriormente) gli cadde la bombetta, così chiede al piccolo se può riprendergliela e lui lo fa, ma proprio mentre sta per afferrarla, gli cade il bastone! Allora chiede al bambino se può prenderglielo e lui lo fa, ma, mentre lo afferra, la bombetta scivola nuovamente a terra; una scenetta che durò per un po’ di tempo e quell’artista di strada sapeva sempre muoversi e reagire in modo diverso, sempre più dinamico e catastrofico, sempre più imprevedibile, dinoccolato proprio come l’originale. A me, quando passai davanti a lui e lo guardai in viso, mantenendo la sua figura immobile come una statua, si limitò semplicemente a farmi l’occhiolino, un gesto rapidissimo ma che mi emozionò enormemente.

Ebbene, seguendo l’esperienza di questi casi, ritorno a chiedermi se sia giusto ciò che il mio maestro diceva: che l’artista deve mirare all’eternità, deve far sì che il suo compito perpetui nel tempo, proprio come noi ricordiamo e citiamo i tragediografi e commediografi, o i filosofi e poeti dell’antica Grecia, anche l’opera mia o di qualsiasi altro artista, se raggiunge il suo compito, fra centinaia di anni sarà ricordata.
E, per dare una risposta, io sono combattuto dall’idea che chi produca materiale artistico, in qualsiasi sua forma, pur ricordato da una sola persona, ha fatto già il suo dovere, oppure se, nel corso della sua vita, con un’opera abbia influenzato la vita di una singola persona, ha anche svolto bene il suo dovere; dall’altra parte sono convinto che tutti coloro che fanno arte debbano mirare a quella gloria che li renderà eterni e immortali! Proprio come Elvis, proprio come Michael... e non a caso, alla morte di questi due personaggi, centinaia di persone hanno detto che non erano morti!

Ma quale sarà la giusta risposta? E (domanda ancor più ardua) in che modo si deve arrivare al successo?

Ma questa è un’altra storia.

venerdì 13 settembre 2013

Ti amo, Napoli li 15 gennaio ’12 - 4° Capitolo di "In cerca di C.F."



- Ti amo, Napoli li 15 gennaio ’12 -
«Aprì gli occhi e tutt’intorno il mondo riprese a vivere anche per lui. Si sentì bruciare la pelle del viso, mentre la schiena era massaggiata da piccoli e levigati sassi; i capelli si muovevano come tentacoli oscuri, seguendo l’andamento del tempo.
Gli occhi restavano fissi sul cielo, pronti per farsi prosciugare dal calore del Sole, mentre nelle orecchie giungeva, sempre più nitido, un suono di conchiglia, un suono che gli ricordava il suo luogo natale, un suono di famiglia, casa, odori e mattoni rossi.
Gli stessi occhi, spalancati verso il cielo, non guardavano nulla in realtà, erano fissi verso l’azzurro di quel posto ma non percepivano immagini reali e non erano in grado di far sbattere le ciglia (ma probabilmente questo era il volere del proprietario); c’era qualcosa sospeso, a mezz’aria fra le nuvole e la carne, una ragazza dai limpidi capelli cielo e freschi occhi di sangue umano. Lui avrebbe voluto parlarle ma non trovò la forza per farlo, così attese che fosse lei a rivolgergli la parola.

La ragazza lo osservò a lungo, non scostando mai il suo sguardo dagli occhi asciutti del naufrago; restò in silenzio, priva d’espressione, cercando di capire com’era possibile quel contatto visivo che le dava incerte sensazioni di calma...come se lui fosse il suo fulcro, il motore dell’essenza, l’energia prima del mondo.

Al primo battito di ciglia di lui, gli occhi trovarono refrigerio dal calore esterno, qualche lacrima distillò le cornee assetate...ma lei svanì.»

Così scrivevo tranquillamente, seduto su di una panchina disposta sul lungomare napoletano. Dietro avevo una città in continuo tumulto e confusione, ma davanti la calma mediterranea di calde acque marine allietava le mie orecchie con il suo perenne e mai uguale strascico.
Mi sollevai piano, conscio che mi sarei dovuto impelagare nei vicoli-ragantela che questa città offriva.
Il sole splendeva alto, ma mai riuscii ad intravederlo per le strade di Napoli, se non in quelle più grandi, dove la gente finalmente poteva respirare e camminare non più per inerzia ma per volontà propria.
La città mi appariva in un groviglio di essenze, di storie belle e storie tristi di buffoni, ingannatori, mestieranti improvvisati: giocolieri della vita, che si imponevano un sorriso da pagliaccio per poter tirare a campare ancora un altro giorno, in questa città luciferina: accolta in paradiso come la più bella e sapiente, per poi essere scagliata nell’Inferno con violenza, odio e invidia.
Camminai, spinto da tutto il resto e lottando contro tutto il resto, per poi adagiarmi nel primo largo che trovai: una piccola piazzetta ignorata dalla massa di tedeschi e inglesi che guardavano ogni angolo della città con un’ignorante esaltazione infantile.
Al centro della piazzetta stava una signora anziana che, vittima della spina dorsale, era costretta a guardare i propri piedi, piuttosto che l’orizzonte. Nella mano destra stringeva, tremante, un bastone di legno di quercia, mentre nell’altra sbriciolava pane azzimo per i colombi di città, detti comunemente piccioni.
Alzai la macchina fotografica che avevo al collo e cercai di inquadrarla nell’obiettivo ma...per quanto cercassi di mettere a fuoco la sua immagine, essa appariva perennemente sfocata. Confuso controllai bene la lente, puntai l’obiettivo su altre persone, altri oggetti, scattai qualche foto di prova e tutto sembrava funzionare alla perfezione.
Ci riprovai.
Impugnai con entrambe le mani la macchina fotografica, misi la figura della donna al centro del riquadro e...nulla, appariva costantemente sfocata.
Mi grattai la testa ancora più confuso per quello strano avvenimento, finché vidi, a pochi centimetri da me, due vecchie scarpe di pezza blu scuro.
«Cosa stai facendo?»
Domandò con calma la vecchietta.
«Sto controllando che la lente...»
Alzai il viso ed un simpatico sorriso amorevole mi fece interrompere la frase.
«Oh, nulla d’importante.»
«Posso sedermi?»
«Certamente!»
Mi scostai sulla sinistra facendole posto sulla panchina e lei con una calma controllata da lumaca, si piegò pian piano fino a lasciarsi andare, entrambe le mani erano poggiate sul manico del bastone.
«E’...è una bella giornata non trova?»
«Chi?»
«Ma lei, signora.»
«Oh...! Certo, certo, è una di quelle giornate che adoro.»
Sospirò mentre annuiva col capo e si passava una mano fra i capelli, la bocca restava semiaperta per respirare meglio ed i suoi occhi, fissi sul fondo della piazzetta, stavano certamente vagando per chissà quali ricordi e fantasie.
«Volevi farmi una foto?»
Interruppe un lungo silenzio.
«Ci provavo, ma a quanto pare c’è qualche problema di focalizzazione.»
«Davvero?»
«Sì, vede...pare che la sua immagine sia sfocata per questo obiettivo.»
Aprì la bocca come a voler parlare, ma poi si limitò semplicemente ad annuire.
«Sai, tutto dipende da con cosa si guarda e che cosa si guarda.»
L’avevo già sentita questa frase...ma non ricordavo proprio dove.
«Beh non c’è tanta possibilità...è una macchina fotografica infondo, cosa c’è di più obbiettivo?»
«Ma non è lei che guarda, sei tu che lo fai.»
«Temo di non capirla.»
«Capire a chi?»
«A lei, no?»
«Ah...già.»
Si mise a ridere rovistando in tasca estraendo un sacchetto pieno di briciole di pane, che appena fu aperto destò l’attenzione di una decina di piccioni.
«L’uomo spesso non guarda, si limita a vedere; l’immagine in se non ha nulla, siamo noi che diamo valore alle immagini, siamo noi che decidiamo cosa guardare e cosa scartare.»
«Potrei darle quasi ragione.»
«Sai è una delle cose che ho imparato sin da bambina.»
«E’ un concetto complesso.»
«E’ vero, è vero...ma è talmente naturale che non dovrebbe esserlo.»
«Era una bambina in gamba.»
«Si capisce!»
Disse sbarrando gli occhi e lanciando delle briciole sul terreno. Immediatamente quei colombi cominciarono a spintonarsi e beccarsi per avere il bottino.
«Bisogna essere intelligenti nella vita, ed io lo ero...d’altronde frequentavo sempre C.F.»
Mi drizzai immediatamente girandomi verso la vecchietta e con fare ansioso le chiesi...
«Lei conosce C.F.?»
Mi guardò di sott’occhio non scomponendosi minimamente dalla sua calma cementificata negli anni.
«Dici di no?»
«Non lo so. Lei...lei ha detto C.F.!»
«Lei chi?»
«Lei tu!»
«Ah! E’ vero.»
Tacque.
«Mi scusi se insisto, ma io sto cercando C.F., se sa qualcosa al riguardo deve dirmelo.»
«Perché...? Ah! Non mi rispondere...sarà per lo stesso motivo per cui io ci sono andata, ed ora...eccomi qui, già sulla soglia dei cent’anni.»
«La supplico, ho fatto un lungo e tortuoso viaggio per essere qui.»
«Davvero? Beh, devo sconsigliartelo prima.»
«Lei sa quali sofferenze prova l’essere umano, in questa continua pazza ricerca per...»
«...per avvicinarsi agli estranei, e inevitabilmente questo rapporto li fa soffrire.»
Rispose, continuando il pensiero che avevo intenzione di esporle, ma decisi di continuare al suo posto.
«Finché non si trova la giusta distanza fra le due persone...»
«...però attorno c’è troppo caos, ed altre persone potrebbero spingere una delle due oltre la soglia.»
Questa volta semplicemente ribatté alla mia affermazione, ma ripresi a parlare.
«In più c’è il caos dei sentimenti, delle parole...le più comunemente confuse sono...»
«...sono: amicizia, amore, passione.»
Annuii semplicemente, meravigliandomi di come quei pensieri che credevo strettamente personali fossero condivisi con identiche parole da un’estranea, un’estranea che, però, aveva frequentato C.F.
«Come fa lei a sapere tutto questo?»
«Cosa?»
«Tutto ciò che abbiamo detto fin ora!»
«Ah! E’ vero, è vero...beh ragazzo, non sei l’unico a soffrire di questi mali; se l’uomo fosse leggermente più consapevole della sua condizione, cercherebbe a tutti i costi C.F. proprio come te, proprio come me.»
«Lei dunque l’ha fatto per questi stessi motivi?»
«E’ triste ammetterlo ma...sì. Ho vissuto poco, ma ho vissuto tanto.»
Sospirò e, notando che aveva terminato le briciole di quel pane raffermo, con fatica si sollevò dalla panchina puntando i suoi occhi su di me.
«Questo è un luogo di passaggio. Non dovresti fermarti qui per molto se vuoi raggiungere il tuo scopo.»
«Mi è stato consigliato da F.V. di venire qui.»
«F.V.?!?»
Sgranò gli occhi quasi in modo terrificante e mi osservò per un lungo tempo, fino a sciogliere il suo stupore in un dolce sorriso da vecchietta.
«Seguimi ragazzo. Fidati delle mie vecchie ossa.»
E così feci: tacito, acconsenziente, gentile e aiutandola ad attraversare la strada come un bravo boyscout arrivammo alla sua dimora, un classico basso napoletano.
La porta si aprì appena lei la spinse col bastone in legno che sosteneva il suo peso, e, scesi tre gradini, fummo nell’appartamento. Osservandomi attorno c’erano solo vecchie cose, come vecchia era l’aria che si respirava, mista a smog e chissà quali altre sostanze tossiche. La carta da parati era arricciata su alcuni angoli, mentre in alcuni punti cominciava a sorgere la muffa. Vecchie foto, incorniciate da dell’argento sporco, riportavano alla luce del presente un passato strano...erano foto vuote, prive di persone intendo, cioè...erano luoghi spogli.
«Non guardare troppo quelle foto.»
Mi avvertì con voce roca.
«Sono il peso che porto da sempre.»
«Non capisco...»
«Non andare da C.F.»
«C’entrano queste foto?»
Scosse il capo, non tanto come gesto di negazione, ma come rassegnazione.
«Chi frequenta C.F. non può esistere. C.F. ti consuma, ti logora, ti risucchia gli organi e l’ombra.»
«Vuole dire che non può essere fotografata? Per questo non ci riuscivo?»
Sospirò.
«Avere tutto: felicità, amore, soldi, una cultura omnia...una salute perfetta, questo vuol dire frequentare C.F. per i motivi per cui noi ci andiamo.»
«Non è una cosa bella?»
«Vedi come sono ridotta? Schiava della mia malattia a guardare i miei piedi anziché l’orizzonte...e qui a Napoli, ci sono degli orizzonti magnifici.»
«Non, io non capisco! Cosa c’entra la salute con lei!»
Si voltò, più velocemente di quanto mi aspettassi e puntò il suo legnoso bastone contro di me.
«E’ stata la mia volontà! La mia scelta! Perché quando ti accorgi di non poter andare avanti con ciò che C.F. ti dona, comprendi come vorresti essere uomo e sprofondare nei suoi dolori, nelle sue colpe!!!»
Mentre urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, avanzava lentamente verso di me ed io ero costretto ad indietreggiare, fino ad urtare con le gambe su di una poltrona e caderci su, sollevando un mucchio di polvere.
«Ma...è folle! Desiderare i dolori umani è folle! Perché desiderarli!?»
«Perché è bello soffrire! E’ bello vivere i dissidi umani! E’ bello tenere una vita normale fra le proprie braccia.»
Tossì acciaccata da quel suo sbraitare.
Ormai respirava a fatica tanto s’era agitata. Con un braccio cercò disperatamente un appoggio e trovò il tavolo su cui consumava gli ultimi pasti della sua vita, e con fatica si sedette ad una sedia di legno accostata ad esso.
Io tremavo guardandola e non potei far altro che tacere, tacere per un lungo lasso di tempo.

Era ormai pomeriggio, io ero ancora seduto sulla poltrona, mentre lei stava dormendo sul letto.
Lasciai scorrere le ore.
Mi addormentai.

Una folata di vento ed aprì gli occhi. Chi? Lui. Lui, ovvero me.
Stava seduto a cavalcioni su di un muro di cemento grezzo che divideva la vita e la morte. Da un lato, sulla sua destra, c’era un cimitero, un classico cimitero, con lapidi più che normali, dall’altra parte una casa vegliava su di una strada ad angolo retto. Da dietro una finestra di quella casa una ragazza lo stava ad osservare, aveva lunghi capelli neri e labbra sottili e delicate.
Lui le sorrise nell’esatto momento in cui lei decise di chiudere le tende.

«Bisogna andare!»
«Andare?»
Il treno era partito ed un uomo alto, magro, con i capelli d’un grigio metallizzato teneva per mano me, ovvero lui, facendolo correre accanto ai binari.
«Non vorrai perdere il treno?»
«No. Certamente!»
«Allora su...salta, ti aiuterò io.»
Era una sorta di treno merci per animali, ma dietro le sbarre c’erano persone dal viso indefinito che ballavano su una musica house.
Orribile.
«Ho paura.»
«Sta tranquillo...sono qui apposta.»
L’uomo longilineo, dai capelli corti e argentati, con la riga a sinistra ed un cappotto di panno grigio e nero, estrasse due spade e con esse combatté contro gli uomini dal viso sfocato, facendosi largo con fatica affinché il suo protetto potesse raggiungere l’apice del treno.
Volteggiava, fendeva, parava...e le lame scintillavano furiose sotto le luci stroboscopiche da discoteca.
«Manca poco...!»
Gli disse con voce chiaramente provata, mentre lui tentava di schivare i bicchieri da cocktail, le parrucche, le cravatte le scarpe con tacchi a spillo e doveva tapparsi le orecchie per evitare quelle urla femminili, così acute da generare esplosioni soniche.
Boooom!
Fu scaraventato fuori dal vagone.

Rotolai (ritornai nel mio corpo) sul terreno di quella collinetta fino a finire sotto il piede destro d’una ragazza.
«Sai cosa devi dire.»
Mi disse con voce chiara, mentre, togliendo il piede da me si apprestava a chinarsi sul mio viso.
«Ho paura...»
Sollevò semplicemente le sopraciglia come ad avvertirmi di essere cauto sulle parole; allora ci riprovai.
«Ti amo.»
Le circondai il collo con le braccia e la baciai. In quel bacio percepii come un esplosione interna, come se un macigno cementificato negli anni si fosse infranto in un sol colpo...o fosse mutato in piume...perché erano piume ciò che vedevo scendere attorno a noi; o era la mia immaginazione, perché avevo gli occhi chiusi, umidi.
Fu comunque fantastico.

Mi svegliai lentamente, ma consapevole di ciò che dovevo fare. L’odore di caffè investiva la casa e non ci volle molto perché quella vecchietta me ne offrisse una tazzina già sapientemente zuccherata.
«L’hai capito chi sono.»
Sorrisi di risposta senza dir niente.
«Come stai?»
«Bene. Davvero bene.»
Sorseggiai piano quel caffè color cioccolata.
«Scusami per ieri, non volevo gridare in quel modo...»
La zittii subito con un gesto della mano.
«Hai fatto bene a dirmelo. Io dovevo solo prendere coscienza di ciò che realmente stavo cercando. Io cerco C.F. per amare...mi è indispensabile.»
«Per amare...»
Disse con occhi lucidi volti al polveroso lampadario ed io annuii sorridendo.
«Hai dato un ultima fiamma di gioia alla mia vita. Ora so perché volevo trovare C.F., ed è ora che tu possa terminare il viaggio.»
Le sorrisi dolcemente sorseggiando il caffè; quando l’ebbi finito gustai il suo sapore fra la lingua e il palato.
«E’ ottimo.»


Per chi si è perso o vuole rileggere i capitoli precedenti:
1) Notte a Milano 
2) Il dono del lago d'Iseo 
3) La passione di Roma 

In cerca di C.F. 

mercoledì 11 settembre 2013

La passione di Roma - 3° Capitolo di "In cerca di C.F."



- La passione di Roma -
Portava le iniziali di C.F. ed ora che ne avevo una più tangibile forma, la mia ricerca si faceva sempre più concreta, ma vaga, ancora troppo per poter raggiungere la fine.
Nome di gentile fragilità, di rosso, di quel colore ambiguo che ci tinge di vita e morte, di gioia, di passione, di libertà, era così e lo sapevo; e rossa era la sciarpa che mi circondava il collo, ammorbidendone la pelle ed i muscoli irrigiditi dal freddo di quel tramonto, e rosso era anch’esso, che mi sorrideva da lontano augurandomi una buona notte; ma in cielo già splendeva sorniona la Luna, sfoggiando quelle sue labbra di stella morta mi diceva: «Benvenuto a Roma.»

Abbassai lo sguardo, con esso si restrinse il mio campo visivo, schiacciato sulle facciate di palazzi antichi. Nelle orecchie risuonava l’acqua scivolata in vortici e vociare di tantissime persone che, mi resi conto, improvvisamente mi circondavano e schiacciavano nel loro andare frettoloso e gioioso. Non mi resi conto del luogo in cui mi trovavo, migliaia di suoni diversi invasero le mie orecchie fino a costringere le mani a tapparle. Ora che i suoni erano più lievi e morbidi potei osservare con una più calma cognizione il posto che mi accoglieva con così tanti fiati e tamburi diversi, occhi diversi che fendevano la luce e la facevano propria.
Girando un po’ lo sguardo, un palazzo robusto e di spalle larghe, faceva risplendere le proprie pareti di bianco marmo, alternate da piccoli balconcini e colonne con capitelli corinzi ricchi di foglie, ma era poco più in basso che iniziava il vero splendore.
Mai i miei occhi si riempirono di così tanto sgomento per la completa e complessa visione di quell’arte umana, dove l’acqua giocava fra il marmo plasmato sotto l’occhio attento e la mente artistica e le mani scaltre di un uomo.
Cessai improvvisamente di respirare, e man mano quel caos di gente sparì dalla mia attenzione; tolsi i tappi che avevo sulle orecchie ed a piccoli passi mi avvicinai al piccolo bordo della vasca, insignificante rispetto alla maestosità di ciò che racchiudeva: la forza, l’esuberanza, la precisione folle, i miti dell’uomo, i suoni di un regno marino affioravano da quello statico marmo e si animavano nella mia mente con una prorompenza inaudita. Il frenetico scorrere delle acque e l’emersione da queste dei due cavalli, uno imbizzarrito, quale simbolo della furia del mare, e l’altro più docile, quale simbolo della pace e calma delle acque marine, viene dominato dall’alto con grande imparzialità e fermezza da un dio: Oceano. Imponente e maestoso, forte, come solo una divinità sa essere, rigido e agile allo stesso momento,  che, in piedi sulla sua conchiglia, dava precisi ordini ai suoi sudditi; in lui si andava a ritrovare tutta la pace e calma che in quella fontana si disperdeva in dinamismo, velocità, linee curve in contrasto con gli acuti spuntoni degli scogli.

Così, ero a Roma, scivolato in quel mondo per ricercare C.F. un mistero avvolto da parole ed oscuro alla mia realtà tangibile.
Roma era lì, e voleva inghiottirmi nei suoi vortici.

Qualche passo, l’attenzione distolta da quella magnetica visione ed ero già altrove a rovistare per vie di bassa fama, ciò che rimaneva del suo passaggio.
I pugni stretti nelle tasche e la mente che volava via, musiche fuoriuscite da camere da letto, mi accompagnavano in questa ricerca mia....
«Ragazzo.»
Una donna dalle lunghe gambe fermò quell’andare costante dei miei passi. Mi voltai piano puntando gli occhi sul suo volto, un volto non più infantile, non più ingenuo dinanzi al mondo, e quegli occhi suoi verde scuro, mi guardavano come si osserva qualcosa di risaputo...pareva conoscere tutto di me, anche le parole che producevo con un connubio fra cervello e polmoni.
Aprii la bocca.
«Sono F.V.»
Mi precedette. Ripresi fiato e nuovamente tentai di...
«Ti vorrei parlare di qualcosa a cui tieni.»
Mi superò, nonostante il tono pacato e sapiente, fra un tiro di sigaretta e le sue lunghe occhiate, riusciva a parlare in anticipo sulla mia timidezza.
«F.V. sta per...?»
Dissi sfruttando il fiato sospeso dalla precedente affermazione rimasta inespressa, e vedendo questo mio parlare veloce allungò l’angolo destro delle sue labbra rosse, in un sorriso tremendamente malinconico. La sua mano sinistra scese lungo i suoi seni, lungo il bacino, ed infilatasi nelle gambe, scostò leggermente quella sinistra.
«Secondo te?»
Mi stava dando la possibilità di parlare, come se stesse dando un piccolo vantaggio a qualcuno che avrebbe ripreso facilmente.
«Potrebbe...non so...“F” potrebbe stare per...fonte?»
Lei annuì semplicemente mentre riaccendeva la punta della sigaretta di fuoco.
«E...“V” per...Vagina?»
Scoppiò a ridere, una risata incontrollata che ruppe quel suo apparire glaciale.
«Fonte Vagina?»
«N-no...nel senso...»
La sua risata coprì la mia voce, tanto da non permettermi di parlare o, quantomeno, sentire i miei pensieri.
«Potevi dire: Fonte Vaginale, quantomeno era più sensato.»
Alzai gli occhi al cielo scocciato, rimisi i pugni, ancora più stretti del solito, in tasca e feci per andarmene via.
«Foglia Verde. E’ così che mi chiamano.»
Uno dei miei passi tentennò per un momento, poi continuò ad avanzare.

Superati un paio di lampioni ricomparve nella stessa posizione: sicura e superba, ma questa volta non provai neanche a ragionare sulle parole da dirle, ero certo che se mi aveva seguito e provava ad ossessionarmi sapeva ciò che voleva da me.
«C.F. Questo dovrebbe attirare la tua attenzione.»
Infatti lo fece. Mi voltai verso di lei, lei sotto il cono di luce gialla creata dal lampione, io dentro quell’oscurità metropolitana...eppure non capivo chi poteva essere la luce e chi il buio.
«Foglia Verde, tu...»
«Io non so, mi spiace, non conosco C.F. ma posso darti una mano.»
Aggrottai la fronte dubbioso e F.V. mi diede subito risposta.
«C’è un uomo che può aiutarti a trovarla, lontano da questo posto, lontano dalla Roma ideale che conosci...»
«Vicino a cosa allora?»
«Vicino ai tuoi incubi.»
Divaricò leggermente le gambe e sorrise gettando la sigaretta in una piccola fontana d’epoca, agganciata al muro del palazzo; mi avvicinai a lei e venni rapito dal suo profumo, fino ad inebriarmi e lasciarmi andare sul suo morbido seno...percepii le sue carezze...

Fra le mie mani giocava un bicchiere di vino con la sua morte, provando, secondo dopo secondo, scariche d’adrenalina fra la mano destra e la sinistra.
Stavo seduto ad un tavolo in legno laccato in superficie, d’un bar cui non serve ricordare l’infausto nome. L’atmosfera di penombra e luci ingiallite dal tempo era infranta da fulmini blu: neon che, sottili, tagliavano il soffitto legnoso formando rette parallele; ogni tanto si accendevano ed una luce blu scuro li attraversava per poi scomparire verso altre sale più chiassose e fumose.
L’ansia cresceva, ma tentavo di non tradirmi, non davanti al mio interlocutore: un impassibile, invisibile e scaltro individuo, avvolto in un ombra talmente nera da farlo quasi scomparire, sotto quegli abiti anni ’40 che portava con fierezza. Il suo volto appariva in lineamenti distorti al passaggio dai lampi blu, mentre la bocca, ogni tanto, si incendiava al riflesso del tabacco del sigaro che fumava.
Era tranquillo, troppo tranquillo in confronto alle mie mani che dimenavano il bicchiere da una parte all’altra del tavolo; stringevo appena i denti per reprimere l’impulso di avventarmi sul mio interlocutore che da troppo tempo si gingillava nella sua magniloquente rudezza.
«C.F.»
Ripetei scandendo le due lettere.
«Capisco benissimo, inutile ripetere.»
Giocava ancora con la sua calma contro la mia frenesia.
«C.F.»
Dissi con più decisione.
«Stai cercando di mettermi paura?»
«C.F.»
Questa volta alzai la voce e...
«Porca puttana!»
Si lanciò sul tavolo afferrando il collo della polo nera che indossavo, spingendo la mia fronte sulla sua, costringendomi ad inalare quella puzza di sigaro mista al suo poco limpido alito.
«Sei uno stronzetto come gli altri.»
«C.F.»
Fu un impresa parlare sotto quegli odori vomitevoli.
Allora mi alzò dalla sedia facendomi staccare i piedi da terra e con una forza sovrumana mi scaraventò al suolo.
«Io non voglio giocare piccoletto! Qui tutti sanno chi sono e nessuno...nessuno pronuncia quelle lettere in mia presenza.»
Alzò la gamba, poi non ci vidi più, percepivo solamente i calci ripetuti contro lo stomaco, i fianchi, la gabbia toracica, mentre strisciavo a terra fino ad urtare contro il muro; tutti i presenti ignorarono il fatto, poiché sapevano bene chi era quell’omone che mi stava massacrando e nessuno voleva intromettersi in ciò cui io non potevo sottrarmi.
Lui continuò a calciarmi finché non udì più alcun gemito di dolore; allora si chinò, avvolse la mano destra attorno al mio collo e mi sollevò riportandomi sulla sedia del tavolo che condividevamo; dopo un gesto minimale dei suoi occhi ad un cameriere, arrivarono in tavola due bicchieri ed una bottiglia di whisky. Se ne versò subito un po’ buttandolo giù d’un fiato prima di ordinarmi di fare lo stesso.
«Bevi.»
«Senta signor...»
«Non! Non dire il mio nome.»
«Bene. Signore, io sto cercando quella cosa e la sto cercando disperatamente, ne va del mio futuro, ne va del mio essere me; e...scusi se non bevo, ma non sopporto questo genere di alcol.»
«Un uomo che non beve ma cerca C.F. è ridicolo.»
«Ne va della mia essenza.»
«Ed io perché dovrei aiutarti?»
«Perché chiunque intraprenda questo viaggio è cosciente di ciò che vuole, di ciò che affronterà.»
Estrasse cautamente un sigaro, dato che l’altro aveva deciso di buttarlo, dalla tasca della giacca e l’accese con maestria. Dopo una boccata d’aria “pura” riprese a parlare con tono più calmo.
«Ma tu non sai cos’è C.F., è il limite, l’estremo, la punta finale del riscatto...dopo C.F. non c’è che la morte.»
«Sto già morendo, che differenza c’è nell’accelerare il processo o mantenerlo uguale?»
Annuì piano gettando fuori il fumo del sigaro e, contemporaneamente, buttar giù un altro bicchiere di whisky come se stesse bevendo acqua.
«Va bene ragazzino. Lasciami la notte per pensarci, ti farò sapere.»
Si alzò afferrando il borsalino poggiato sul tavolo, ma la mia mano lo fermò.
«In che modo?»
«Io so sempre dove cercare chi voglio trovare, ho tanti occhi maliziosi e deliziosi in città. Arrivederci viaggiatore.»
«Arrivederci.»

Arrivederci Roma,
Per queste strade che sanno di smog la gente cammina indisturbata dalla presenza altrui, quasi ignara dell’altro, poiché si è in troppi in questa strada enorme dove si suda, mentre in alto i lampioni si ghiacciano.
I palazzi, di mura secolari lavorate da mano d’artista, ci spalleggiano nell’andare, salutando ogni persona per ogni piano, per ogni vaso fiorito esposto sui corti balconi.
Città di tanto, di troppo, vasta più dell’orizzonte dei nostri occhi, non tutti sanno cogliere cosa c’è in una delle tue piazze nascoste dalle guide turistiche, offuscate dalla magniloquenza di quelle opere raffinate che tutt’oggi ti rendono Roma...ed il tuo nome fa tintinnare di gioia i sogni di persone che neanche conoscono la tua lingua.
Il centro è un cuore pulsante, a volte nero, cui si cammina ignari del fatto che si sta attraversando il tempo, le epoche, i millenni, dove uomini cui solo il nome ci rende orgogliosi d’essere Italiani, hanno vissuto nelle grandi imprese, così come nelle piccole quotidiane avventure, la loro vita.
C’è sangue per queste strade cementificate, c’è poesia nei tuoi caratteristici pini, c’è musica nei teatri avvolti da mantelle rosse dove un ragazzo aspetta l’inizio dell’opera e qualcun altro desidera fotografare quell’attesa ansiosa di recepire Arte.
Di rosso si tinge la sera sulle arterie di questa Roma compulsiva e frenetica, dove auto di ritorno, svuotano uffici, scuole, università, centri, per raggiungere i focolari domestici lontani, in quei quartieri dove quasi si ci dimentica d’essere a Roma.
La notte arriva, ma quasi nessuno se ne rende conto, troppi impegni tengono lontane queste persone dalla realtà, ognuna è costretta a vivere nel proprio guscio, per riuscire a portare a casa qualcosa...che sia pane, che sia gioia, che sia stanchezza o la solita emicrania metropolitana, o mali, mal di città.
Hai tanti volti, Roma, e nella notte lentamente spegni le luci dei quartieri, mentre la folla si riversa nei vicoli casalinghi di Trastevere e qualcun altro guarda le stelle, che questa città ha creato, dall’alto del Gianicolo...mentre ciò accade io, io come altri, ti sogniamo, rivedendo in te il mondo che ci ha salvato, rivedendo sul tuo nome la sporcizia che ci offre la vita, così come la bellezza...ed in questo io ti ringrazio.
Chi non ti ama, chi non ti cura, chi ti rinnega, non ha abbastanza spirito per poter allargare le sue mani sulla tua natura quasi divina.

Delle piume volavano sul mio corpo, le loro carezze rinfrescavano il mio spirito, placavano il mio corpo, mi rendevano felice d’esser uomo....
F.V. accarezzava il bordo d’un bicchiere poggiato sul davanzale della finestra dalla quale osservava gli altri camminare e compiere i propri doveri quotidiani; fu la prima cosa che vidi quando mi svegliai sotto un caldo piumone, su di un letto che non conoscevo. Lei si voltò verso di me dandomi il buon giorno e quel viso non mi parve mai così tanto pulito e ingenuo, ingentilito dal sole mattutino, lì dove l’innaturalezza del lampione la rendeva più vecchia e volgare. Di risposta le sorrisi stropicciandomi gli occhi ancora appesantiti dal sonno.
«Hai passato una buona notte?»
«Si.»
«Bene. Meglio così.»
«E tu...come stai?»
Aveva appena ripreso a guardare le persone sulla strada quando a quella domanda, si girò sorpresa e si avvicinò con gentilezza, facendo ondeggiare quella sottile vestaglia verde scuro, come i suoi occhi, pronta a far vedere ciò che si celava sotto.
«Interessa a qualcuno?»
«A me.»
«Già...»
Si avvicinò baciandomi la bocca, con la stessa attenzione e passione con cui una ragazza bacia il proprio amore per la prima volta.
«Hai un animo gentile. Perché vuoi cercare C.F.?»
Le scostai i capelli dal viso avvolgendolo con entrambe le mani.
«Devo farlo, se non raggiungerò il mio scopo, una parte di me morirà. Ma tu...tu invece, perché fai...»
Mi zittì baciandomi ancora, piano, sfiorandomi appena; poi, alzandosi dal letto, allacciò la sua vestaglia.
«Vado a prepararti un caffè.»

C’è gente che s’innamora facilmente...io sono una di queste persone e, parlando della mia personale esperienza, non m’innamoro facilmente per una mancanza di sensibilità o di percezione dell’amore, ma per un acuta percezione di esso, per un’acuta percezione della bellezza che so scovare con maestria, e non parlo esplicitamente di bellezza estetica, ma della bellezza in generale, quella che oserei scrivere con la “b” maiuscola: Bellezza. Chissà se era amore ciò che provai nei confronti di F.V. , se quel mio osservarla in vesti umane, lontano dalla strada che comandava con sguardo superbo, per far fronte a uomini senza pudore, sporchi fin dentro il corpo, dalle idee distorte, dai modi maneschi e padroneggianti, mi avesse fatto comprendere quanta semplicità bastava per renderla una persona amabile al di fuori degli affetti fisici. Chissà se mi innamorai di lei per quella risata spontanea, per il modo in cui sapeva osservarmi, per il modo in cui respirava vicino a me e...in qualche modo, mi amava e mi amò per tutta la notte.
In lei ritrovai molte caratteristiche ricercabili in C.F., molte delle quali erano genuine e pericolose come il Fiore d’Adone.

«Da piccola non vivevo qui.»
Disse mentre indossava vestiti giornalieri e comuni.
«Stavo in una città...indefinibile. Non importa il suo nome, ma ricordo che un giorno incontrai un giovane ragazzo.»
Sorrisi intuendo che stava parlando del suo primo amore.
«Sì, in un certo senso fu il mio primo amore...anche se allora non conoscevo questa parola e pertanto...non potei dirglielo.»
Non fui sorpreso nel sentire queste parole, lei aveva sempre saputo precedere i miei pensieri.
«Insieme guardammo la Luna. Fu magnifico.»

Andai via sul tramonto, dopo aver trascorso tutta la giornata in sua compagnia, lei che mi seppe consigliare come trovare C.F. e mi regalò, sul nostro addio, un bacio da donna che non dimenticherò mai.
Ciò che scoprii era che il mio obbiettivo era ancora molto lontano, altrove, più a sud di Roma, in un’improbabile paesino cui non avevo mai sentito parlare, ma da allora quel suo nome mi entrò in mente, come fosse il mio stesso nome.

 - Se è la prima volta che leggete "In cerca di C.F." vi rimando ai capitoli precedenti:

- Se vi è piaciuto qui potrete comprarlo: In cerca di C.F. (lulu.com)

martedì 10 settembre 2013

Uomo e Numeri dentro uno spazzolino



Ci sono dei momenti nella vita in cui si compiono gesti naturali e automaticamente la mente (scusate il gioco di parole) si lascia andare a pensieri vaghi e forse vani.

A chi studia una materia umanistica, in generale (dallo studio dell’antico greco, ai disegnatori di fumetti), sicuramente sarà capitato di dover parlare con qualcuno del suo percorso di studi e questo “qualcuno”, appena sentito che si studia nel campo umanistico, ne rimane deluso oppure muove apprezzamenti di convenzione:

Esempio del caso n°1:
«Ho preso Lettere e filosofia
«Oh, come mai?»

Esempio del caso n°2:
«Sai studio nella facoltà di Lettere e filosofia
«Ah! Interessante...!»

Aggiungiamo a questa perenne condizione di falso svantaggio, quella ferma convinzione che, chi va bene alle superiori, deve studiare o Medicina o Ingegneria.

Ebbene, mentre spazzolavo con cura i denti, una sera, ho ripensato a tutto ciò e mi ha fatto riflettere su come le materie umanistiche, oggi giorno, almeno nel nostro italico stivale, siano poco considerate, mentre quelle scientifiche sono apprezzatissime. La stessa società ce lo suggerisce: «Fate gli imprenditori da grandi!»; oppure il successo del programma The Apprentice!
Ma ciò, non implica automaticamente che la scienza sia più importante dell’umanistica?
Ovvero: i numeri sono più importanti dell’uomo.
Ovvero: una creazione dell’uomo è più importante dell’uomo stesso.
Ovvero: è più affascinante indagare su un numero che non sulla psiche umana.

Allora (sempre mentre spazzolavo i denti) pensavo a come siamo già schiavi della scienza e di come i disastri preannunciati sin dal film culto Metropolis di Fritz Lang o il più recente Battlestar Galactica siano già in atto qui, proprio in questo momento, ma in modo molto più silenzioso, in modo così sottile che non ce ne rendiamo conto.
Anche l’attuale crisi economica, non è forse frutto dell’uomo stesso? Non è forse il risultato di un’attribuzione che l’uomo stesso ha dato all’economia? E in essa ha riposto ogni sfaccettatura della sua vita e l’ha fatta crescere a dismisura fino a farla diventare un mostro indomabile?
South Park ha ragione quando fa vedere Kyle che con un bancomat con spesa illimitata (era all’incirca così) si addossa tutti i debiti di tutte le persone della città, risanando la loro condizione economica, perché, paradossalmente, si potrebbe fare! (Ignorando i pignoramenti a catena successivi)

D’altra parte i numeri hanno spesso fiancheggiato l’uomo; esempio più alto è internet, è questo blog su cui scrivo, è You-Tube, dove posso caricare i miei filmati e sono i filmati stessi anche frutto di quei maledetti numeri; allora, se uomo e numeri hanno viaggiato spesso insieme, se si aiutano l’un l’altro, allora non sono entrambi sullo stesso livello? Anzi, è per i bisogni umani che la tecnologia si evolve e quindi, permettetemi di dirlo, l’uomo è una spanna in più sopra la scienza ed è sopra la scienza perché è lui stesso a creare le formule ed è superiore ad essa perché di quelle formule l’uomo sa tutto, ma l’uomo su se stesso non sa tutto.

A conclusione di ciò c’è, da una parte il risciacquo della bocca, dall’altra c’è la speranza che questa situazione claustrofobica svanisca e che possa parlare a quel “qualcuno” dei miei studi, senza sentirmi un idiota che sta perdendo il suo tempo  “dietro a frasi di canzoni, dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà...” (Cit. F.Guccini) 

Detto ciò colgo l'occasione per sponsorizzare alcune mie cose:
Libro: di questo, trovate i primi due capitoli in post precedenti, sempre nel suddetto Blog :) In cerca di C.F. 


lunedì 9 settembre 2013

Il dono del lago d'Iseo - Cap.II di "In cerca di C.F."



- Il dono del lago d’Iseo -
Il freddo mi stringeva nei suoi aghi, aghi di pino che fluttuavano al suono del secco vento autunnale, aghi di pensieri, sottili e letali, si insinuavano in quella forma di noce ingrandita chiamata cervello, fino a strisciare sui miei occhi e farmi vedere cose che non avrei mai voluto vedere.
Le nuvole in cielo si spostavano veloci: mandrie di bufali che sbattono con forza gli zoccoli per far impaurire i passanti, ed infatti ero solo, completamente solo in quell’alba di ghiaccio dove il Sole non era che un fiammifero acceso nell’immenso.
Sospiravo.
Gettavo aria calda, sprecavo energia per scaldare almeno un po’ quelle mie mani, ma il freddo che avevo dentro era impossibile da estinguere con la sola forza del mio corpo. Non potevo. Nessuno poteva. Non in quel luogo. Non in quel tempo. Non quelle immagini; né quegli aghi di pino, né l’alba ignorante, né i miei guanti di lana, né la mia penna...
Provai ad imprimere la punta di questa sulla mia mano, ora scoperta e inerme, ma la debole sfera non girò, né l’inchiostro accennò a muoversi e ribollire sotto l’energia che le davo: era ghiacciato.
Sospirai.
«E così sei morta anche tu in questo spazio vuoto. In questo posto sperduto, spoglio di uomini, ma ripieno dell’essenza di lei.»
Mi alzai lentamente poggiandomi alla corteccia del pino che mi sovrastava, e da lì ammirai il panorama esteso sotto i miei piedi, quel lago immenso, chiuso fra i monti innevati, smuoveva appena la superficie lottando contro il gelo.
«Perché è venuta qui? Perché sono venuto qui? I suoi pensieri mi sfuggono veloci. Tento di afferrarli, ma come la luna, vicina e presente, sfuggono al tocco dell’uomo.»
Avanzai piano per quel pendio innevato, dove i doposci affondavano in quella sorta di panna montata e, coraggiosi, si ergevano a mia difesa, avanzando sotto i miei chiari e precisi ordini.
Avanzai fino al lago senza mai voltarmi indietro. Quel pino solitario richiamava la mia presenza, ma io l’ignoravo per concentrarmi meglio sui sospiri di lei. Quell’aria condensata che fuoriesce dalle bocche umane, aliti di vita che appaiono ai nostri occhi, era lì vicino...lei aveva parlato in quel posto e ricercavo le sue parole, tangibili in quella nebbia che genera il respiro.
«Cerchi. La ricerca è il motore del mondo.»
Un’ombra s’era allungata fino a toccare i miei piedi, un’ombra lunga con spalle larghe...immobile come una statua di marmo.
«Ma devi sapere cosa stai cercando.»
«Cerco le parole.»
Risposi senza voltarmi indietro e identificare quell’ombra statica sui miei piedi.
«Lasciami andare. So ciò che faccio.»
D’improvviso quella mandria di bufali nel cielo scosse la terra dall’aria, un suono comunemente definito tuono investì tutta la valle separando per un momento la superficie del lago. Non feci in tempo ad alzare il viso che già la pioggia aveva bagnato le mie spalle. Tutto si avvolse in un’improvvisa oscurità, un ombra enorme inglobava quel luogo, ovattando quei già fragili raggi solari ora rialzati dall’orizzonte. Coprii il capo con il cappuccio e correndo trovai riparo sotto al pino che avevo lasciato su in collina; da lì ammiravo nuovamente il lago.
Quella pioggia pesante picchiava sulla sua superficie creando tante piccole voragini, che, a loro volta, causavano piccole onde, e tutt’insieme smuovevano le sue viscere profonde e scure.
Lei era lì.
Nei vortici di quelle acque aveva lasciato qualcosa di se.
Corsi al lago sfidando il temporale, e sulla sua riva mi dissetai.


Il racconto è disponibile su lulu: In cerca di C.F.

sabato 7 settembre 2013

Appunti di viaggio - Nuova partenza. Non credo mi abituerò mai.

Nuova partenza. Non credo mi abituerò mai.
E' sempre stato così: parto e sono nostalgico, ritorno e sono nostalgico.
La mia vita ormai si divide fra due realtà ben distinte; l'una è Roma, dove risiede la mia maturità, il mio studio, la mia indipendenza e dove parte di sogni sopiti e mai realzzati, per costrizione, hanno preso forma; l'altra è Cosenza, città amata e odiata per le più svariate ragioni, qui risiede il me infante e incosciente, sta il calore della famiglia, stanno i miei amici più cari ma, a differenza di Roma, è un mondo chiuso che conosco fin troppo bene e questo le conferisce la sicurezza del risaputo e la noia del già visto.
Nonostante tutto ciò non posso dire di avere un luogo preferito e così nel viaggio, nei paesaggi frettolosi da autostrada, rilascio la mia malinconia notturna.

Vorrei che parte della mia Cosenza fosse a Roma (mai viceversa!), perché proprio quando sto lontano da entrambe, capisco d'aver perso, lasciato qualcosa e sto sospeso nell'arrivo in stazione e devo litigarmi il bracciolo centrale con chi ho di fianco.

Che noia.
Hanno anche acceso l'aria calda.

Forse non è il viaggiare in sé, ma è come si viaggia... e qui... sto scomodo.

Prefazione e "Notte a Milano" (In cerca di C.F.)

Il nome "Il taccuino dei venti" sta in riferimento sia alla mia età, sia perché i venti portano turbolenze e cambiamenti ed è ciò che mi auspico porti questo Blog.

Il Blog in se si suddividerà in annunci personali, note sui miei lavori e veri e propri capitoli di racconti che ho finito di scrivere; vorrei avitare progetti nuovi o iniziati, perché la mia attività è incostante e in continua elaborazione, difatti questo blog iniziò con una storia a se, intitolata "Arcaica Mesant", quei post sono stati eliminati perché devo avere più tempo per comprendere meglio quella determinata storia.

Ciò che vi propongo, come primo lavoro è "In cerca di C.F."

Note dell'autore: C.F. è nato da un lungo viaggio interiore, in cui il protagonista, ombra dello stesso suo autore, ripercorre varie tappe della sua vita, concretizzate nelle varie città italiane, più due posti prettamente naturali, lontani dalle città, in cui avrà le più importanti rivelazioni. Il protagonista, volutamente senza nome, passa per: Milano, il lago d'Iseo, Roma, Napoli, il passo della Crocetta, Bari e infine una città misteriosa, in cui, forse, troverà la verità che racchiude in queste due lettere: C.F..
Ma C.F. non è nulla di certo, ogni lettore può vestire i panni del protagonista e compiere questo percorso con lui, fra realtà e fantasia, fino a scoprire cosa c'è oltre la porta del Cervo di Fuoco, fino a scoprirsi lui stesso protagonista di questo viaggio.
Spero che ogni lettore ne tragga un'importante verità, come io, autore, ho trovato in questa "impresa" letteraria.

Buona lettura!

 


- Notte a Milano -
In una giornata di nebbia, caratterizzata dal mio respiro, andavo da solo su di una di quelle strade di periferia. La pioggia aveva smesso di scendere ormai da un giorno ed i suoi residui d’acqua si erano andati a ghiacciare lungo l’asfalto, sul marciapiede, sui rami degli alberi spogli d’ogni loro grazia primaverile.
L’inverno calava sotto il cielo di quella città tumefatta dalla frenesia dell’uomo, dalle auto che logorano i palazzi e dai pensieri d’una ragazza che, lì, da qualche parte, aveva disperso le sue lacrime. Io le cercavo con apparente noncuranza. Osservavo le strade, i semafori, i volti di gente che ignoravano la mia presenza e quasi mi urtavano nel loro andare spedito.
Chiusi gli occhi chiedendomi perché ero lì e ripresi a camminare più deciso, ma col cuore sempre più infranto: come uno specchio rotto, lo specchio della mia anima che si incrinava giorno dopo giorno.
Camminavo.
Mi chiedevo dove lei fosse, dove quel suo sguardo si fosse posato, e se non era un sorriso che mi schiariva i pensieri, quasi sempre calava quel velo d’amarezza che mi spingeva a cercarla, a divenire così incentrato sulla storia di lei che...
Chi lo sa.
Chi lo sa cosa credevo d’avere, forse insulti, schiaffi, grida acute disciolte in lacrime? No, lei non ne sarebbe stata capace.
Così mi avvicinai ad un piccolo parco: un rifugio di questa terra braccata dall’uomo. L’assenza di persone, però, lo rendeva cupo e triste, gli donava quella carica di Mistero che si inebria nelle poesie da me composte e gliene avrei voluto dedicare una in quel momento, in quell’istante…non importava che non avevo fogli e penna, potevo scrivere nella mia mente, quei versi sparsi che amo comporre in momenti di libera poesia.

«Mi rapisci in questo tuo lugubre antro,
Mistero dalle mille identità nascoste
che mostri solo a colui che sa udirti,
che sa intendere il tuo lamento cupo;
frena il mio passo con le tue radici,
blocca il mio cammino incerto, questo
mio lento andare nella tua dimora!
O, forse, vuoi attirarmi in questo luogo,
dove tu esali respiri di morte e sonno,
per poi atterrirmi con la tua forza, io
lo so! Intuisco i tuoi pensieri effimeri,
come questa nebbia che m’avvolge
la bocca, questo ghiaccio che congela
i miei piedi, penetrando da essi, tracciando
la loro conquista su, per le ossa del corpo!
Aiutami ad esser forte, aiutami ad essere…»

«Ad essere?»
Voltai il viso udendo una voce di bambina. Io tenevo le mani sui pali di ferro che reggevano lo scivolo ghiacciato, mentre alle mie spalle un’altalena aveva preso a dondolare e su di un suo sedile vi era una bambina dai ricci capelli biondi, con indosso un vestitino bianco, calze bianche, scarpette da cerimonia bianche, mentre gli occhi restavano chiusi.
«Ad essere?»
Dissi rigirando la domanda.
«Non lo so. Io non so molto del mondo.»
Girandomi totalmente la raggiunsi sedendomi all’ultimo sediolino libero dell’altalena.
«Dove sono i tuoi genitori?»
«Non ho genitori. Vorrei che tu mi raccontassi una storia, una storia di questo Mistero. Per piacere.»
Allora annuii e, non capendo neanche il perché, cominciai a raccontarle del mio viaggio in quella terra lontana.
«Anni fa giunsi in un castello d’origine sveva, un castello molto antico, ma trascurato; in quel tempo, come oggi, faceva freddo…ma lì, prese a nevicare…»

Prese a nevicare e quel miracolo del cielo scendeva in cristalli d’una manifattura così alta da far capire come la natura non possa essere superata da niente e nessuno. Quel candore andava a posarsi lungo le vecchie mura del castello, sopra il suo antico pavimento diroccato, sui miei capelli.
Alzai il viso in aria sorprendendomi di tale situazione e proprio allora qualcun altro entrò. Io stavo in quella che, a suo tempo, doveva essere la parte centrale del castello, dove finestrelle si aprivano sulla vallata, sulla nuova città costruita in tempi in cui non si teme più l’arrivo d’un guerra; io stavo seduto su di un trono di roccia.
Chi entrò allora fu una ragazza dalla pelle di neve, gli occhi d’un azzurro che viaggiava fra quello gelido dei ghiacci e quello caldo del mare, con un andare timido e sogni rivolti al cielo. I suoi passi erano attutiti da quella moquette fredda; la sua bocca mi rivolse subito un saluto soffiato su note leggere, da flauto, ed io ricambiai con un lieve cenno del capo.
Allora era immensamente bella, la sua forza soppressa dalla timidezza che mostrava, si estendeva lungo quelle sale antiche e abbandonate, mentre la mia ombra oscurava sottile il pavimento sollevato dalla terra e spaccato da antichi flagelli.
«Ti stavo aspettando.»
Le dissi sollevandomi con calma da quel masso antico, infilando le mani nelle tasche dei blu jeans e lei non fece che arrossire e abbassare il capo. Il suo silenzio d’imbarazzo coprì quei tre passi che mi servirono per raggiungerla, poi alzò la testa nell’esatto istante in cui l’abbracciai; allora un vortice di sentimenti si accese da qualche parte dentro il mio corpo, un calore straordinario unito alla forza del vento, che sciolse la neve in brina. Quei cristalli perfetti trovavano la loro morte sul mio corpo, non riuscivano a posarsi, perché…chissà perché…il cuore mi batté così forte al contatto con la sua pelle.
Allora identificai tutto quello come Mistero, ma nel preciso istante in cui materializzai questo pensiero, lei era divenuta vento, vento che accoglieva i cristalli di neve trasportandoli altrove. In quel suo fuggire, in quel suono cupo lasciato da spire di vento gelato, percepii il suo disappunto: il rifiuto d’intraprendere una strada che io desideravo, desideravo pienamente percorrere con lei. Ma quel giorno d’inverno, perso fra le mura d’un castello, ignorato dagli uomini, è terminato in piccole poesie o in piccoli versi di poesie più grandi, che sottendono il mistero di quel giorno.

«…ciò accadde anni fa, quando ancora ricercavo me stesso, quando questo luogo e questa città mi erano ignoti.»
Sospirai e, guardando sulla mia sinistra, notai che quella bambina era scomparsa, seppur l’altalena accennava a muoversi, ma pareva più essere spinta dal vento che da altro. Non mi chiesi mai una ragione di quell’apparizione ed il perché di quel ricordo, ma aggiustai il cappello che portavo in testa e ripresi il cammino per quella città immersa nella sua modernità.

Faceva freddo, quel giorno, e per quanto potessi sfregare le mani, quella sensazione di gelo non lasciava la mia pelle ma penetrava sempre più in profondità nella carne.
Giunto ad un negozio di giocattoli mi soffermai a guardare la vetrina, a notare gli sgargianti colori di quegli oggetti, il loro restare immobile, la loro perenne vita…e la vita d’un giocattolo era tanto triste da spingermi ad allontanarmi in fretta. La gente non dava peso al mio passo svelto, non ero abituato ad udire quell’intercalare che avevano, ma ritrovavo atteggiamenti già visti in altre città. D’altronde quando la conobbi era una città sconosciuta, seppur già zeppa di automobili, di chiasso, di semafori e di palazzi, per me era sconosciuta.
«Signore.»
«Si?»
Mi sentii tirare il cappotto e quando mi girai c’era nuovamente quella bambina dai boccoli d’oro, gli occhi erano ancora chiusi, tanto che pensai che fosse incapace di vedere, o meglio, di utilizzare gli occhi…perché altrimenti, in quale altro modo avrebbe potuto riconoscermi in quel fiume di gente, se non vedendomi?
Mi chinai su di lei accarezzandole il piccolo viso dalle linee morbide e quella morbidezza mi ricordò qualcosa, un’immagine legata ai petali delle belle di notte, quei fiori dai colori sgargianti, che, solitari, sbocciano solo nelle ore notturne, celando la loro bellezza a chi vive di giorno...io la colsi. Accarezzai anche i loro petali, morbidi, d’una morbidezza inesistente in altri oggetti, un po’ com’erano morbidi i filtri di quelle sigarette che fumavo.
«Tu hai mai fumato?»
Non mi sorpresi, stranamente, di quella domanda che mi porse nell’esatto momento in cui pensai alle sigarette.
«Ci fu un periodo in cui fumavo a ripetizione, con la mente; quando presi in mano l’accendino vero, avevo già fumato la mia ultima sigaretta.»
Mi sorrise e saltellando se ne andò fra i cappotti lunghi delle persone, fra la nebbia che li avvolgeva e che la rapì a se; mi chiesi allora il perché di quella sua apparizione, ma fu una domanda così leggera, che bastò il rumore dei motori in partenza al semaforo, per distrarmi su altri concetti.

La cercavo per quegli anfratti di tristezza umidificati dalle lacrime di tutte quelle persone che non piangevano, ma lo lasciavano fare ai loro sogni ed in essi le lacrime invadevano le strade, per poi asciugarsi al mattino; la cercavo perché sentivo che era da qualche parte, nascosta fra un pneumatico ed un tombino, ansimando speranze fatte di luce, ma prima che potessi trovare la sua scia, una macchina per poco non m’investì, facendo salire al cielo il suono del suo clacson. Qualcuno riuscì a tirarmi nuovamente sul marciapiede e non fui sorpreso nel rivederla, lei, quella bambina che in quella notte aveva deciso di seguirmi come un fantasma e guidare la mia anima verso i meandri del passato.
«Devi stare attento.»
«Grazie di avermi salvato piccola.»
Mi sorrise ed io le presi la mano.
Inconsciamente cominciammo a camminare insieme, passando sotto portici, balconi gocciolanti, alberi da città intrisi di smog, fino a trovare una piccola panchina in cemento che accolse i nostri corpi stanchi.
Mi tolsi quel cappello alla Bogart che indossavo a sollevai il capo al cielo, sorprendendomi di come troppo poco la nostra attenzione si dissocia dalla terra o da un campo visivo medio; allungandomi verso il cielo risentivo il mio spirito prender forma e ossigeno, i miei sensi si rilassarono e trovai conforto nell’infinito oceano notturno, cielo, però, privo di stelle.
«La Luna non c’è.»
«No invece, c’è, solo che tu non la vedi.»
«Davvero? Tu riesci a vederla?»
«Certamente è lì.»
Ed alzò il suo piccolo indice verso la volta oscura che era compressa dalla grande città; io seguii la traiettoria indicatami ma non vidi altro che coltri nere, d’altronde ogni frazione di cielo era coperta da nubi.
«Io non vedo proprio niente sai?»
«Con cosa stai guardando? E specialmente, cosa guardi?»
«Guardo il cielo e...si guarda con gli occhi, almeno le cose “visibili”.»
«Ma io ti ho indicato la Luna non il cielo, ed abbiamo altre percezioni oltre gli occhi.»
Ci pensai un po’ su, chiusi gli occhi, feci un bel respiro e ricercai in me quell’altra fonte percettiva di cui ero dotato, non so bene definirla, non so se era talento, ispirazione o qualcosa legato a logiche matematiche e genetiche, ma so che era in me, ciò che mi concede di creare dal nulla, ciò che mi rende Artista.
Quando riaprii gli occhi vidi la Luna.
Era gigante, enorme, quasi sembrava si stesse schiantando contro il mondo, e investiva la città con una luce d’un lieve blu notte, un velo che scendeva sui corpi di tutti, un raggio rassicurante e misterioso, di quel mistero che non lascia paure ma speranze di gioie future, come le può generare la fede.
Mi persi a contemplarla, restando esterrefatto dalla sua presenza così vicina da poterne quasi sentire l’odore del suo terreno, ma così distante da non riuscire ad afferrarla; ed allungai la mano verso di essa, desideroso di accarezzarla, come si accarezza un volto di donna.
«Avevo ragione, visto?»
«Vedo.»
Continuavo a cercare di toccarla tangibilmente, ma non riuscendoci, ritirai il braccio per poi sorridere a quella deliziosa bambina.
«I bambini hanno molto da insegnare agli adulti. Ma...tu sei orfana? Non dovresti andare in giro per la città a quest’ora.»
«Perché? Anche tu sei in giro.»
«Ma io sono più grande di te.»
«Non ci giurerei, non sei stato nemmeno in grado di riconoscere la Luna.»
«Cosa significa?»
«Significa che hai molto da imparare.»
«Da te?»
«No affatto.»
«E allora, da chi?»
Premette il suo piccolo dito indice sul mio petto.
«Da te stesso.»
E poi mi sorrise con una semplicità e spontaneità unicamente tipica dei bambini; io abbassai lo sguardo, mi toccai il cuore con la mano destra e quando lo rialzai, lei non c’era più, né si poteva intravedere nei paraggi.
Guardai il cielo...era svanita anche la Luna.
Si andava così a disintegrare in me quella sensazione di pace che ero riuscito a raggiungere, placando il mio animo di quell’accecante ricerca che mi estenuava.

Lento, stanco e infreddolito, mi chiusi ancor di più nel cappotto, indossai ancora il cappello e ripresi il mio viaggio per quella città. Non percepivo niente ormai, guardandomi attorno, osservando quelle persone della notte che vagavano in cerca di un futuro, non percepivo nulla dell’essenza di lei...
Avevo ancora molto da imparare, forse troppo per la mia breve vita.

 

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